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La Corte Ue detta la linea sul velo: le aziende possono vietarlo

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La Corte europea di giustizia di Lussemburgo ha sentenziato che un’azienda può istituire una norma per vietare a una dipendente di portare il velo islamico durante i contatti con i clienti. Per gli eurogiudici, però, la legittima esigenza di neutralità dell’impresa non deve essere attuata in modo discriminatorio.

Le restrizioni devono quindi valere per tutte le convinzioni politiche, filosofiche e religiose. Inoltre, in mancanza di questa specifica norma generale, il datore di lavoro non può tenere conto del desiderio di un cliente affinché i servizi e le forniture non siano più assegnati a una dipendente con velo islamico.

All’origine della sentenza – Il caso principale nasce in Belgio nel 2003, quando l’impresa G4S assunse Samira Achbita di fede musulmana come receptionist, destinata ai servizi di ricevimento e accoglienza dei clienti sia del settore pubblico sia del settore privato. All’epoca una regola non scritta interna alla G4S vietava ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Nell’aprile 2006 la signora Achbita informo’ il datore di lavoro di voler indossare il velo islamico in servizio.

La direzione della G4S le comunicò che non sarebbe stato tollerato in quanto in contrasto con il principio di neutralità. Il mese successivo, dopo un periodo di assenza per malattia, la dipendente rese noto ai superiori che sarebbe rientrata indossando il velo. Il 29 maggio 2006, il comitato aziendale della G4S approvò una modifica del regolamento interno, con entrata in vigore il 13 giugno 2006, che introduceva il «divieto ai dipendenti di indossare sul luogo di lavoro segni visibili delle loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose e/o manifestare qualsiasi rituale che ne derivi».

Nel giugno 2006, a causa del perdurare della volontà di Achbita di indossare il velo sul lavoro, si era arrivati al licenziamento, subito contestato davanti ai giudici belgi. Il lungo iter giudiziario è arrivato fino alla Corte di Cassazione, che ha rinviato al massimo livello degli eurogiudici di Lussemburgo.

Al procedimento di Achbita è stato aggiunto anche il caso simile provocato in Francia dalla denuncia della signora Asma Bougnaoui contro l’impresa privata Micropole. In questa vicenda è sorto il dubbio che a prevalere possa essere stata la volontà negativa del cliente nei confronti della dipendente con velo islamico.

Le conclusioni – La Corte europea ha così concluso che il divieto di coprire il capo con un velo islamico, se scaturisce da una norma interna di un’azienda privata estesa a chi indossa in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro, «non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi della direttiva». Una “discriminazione indiretta” si realizzerebbe, invece, qualora venga dimostrato che l’esigenza di neutralità dell’impresa sia stata attuata provocando un particolare svantaggio ai dipendenti aderenti a una determinata religione o ideologia. L’eurosentenza di Lussemburgo appare ora destinata a diventare il precedente di riferimento per tutti i casi simili nel 28 Paesi membri dell’Ue.

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